L’«aristocratica» isola di Sifnos

4 Feb Nessun commento Stefano Vicini La nostra Sifnos

Sifnos, una delle Cicladi occidentali, è oggi un’isola che vive di un turismo “indipendente”, che sa apprezzare quell’atmosfera un po’ esclusiva, “aristocratica”, che vi si respira. Infatti, nonostante l’alto numero di visitatori estivi (per lo più francesi), è ancora al di fuori del circuito dei tour operator (quelli che propongono fantozziani “pacchetti all inclusive”), né ha visto (per ora) quell’eccessiva cementificazione che ha rovinato troppe coste del nostro Mediterraneo. Di certo non è più quel luogo remoto che visitò il viaggiatore inglese James Theodor Brent, e che egli descrisse a lungo nel suo The Cyclades: Our Life among the Insular Greeks, London 1885 (pp. 48 ss.), affascinato anche dalle belle ceramiche locali, note già in epoca classica e ancora oggi vanto dell’artigianato sifniota. Eppure i bianchissimi villaggi di Kamares (il porto), Apollonia (la capitale) e Artemonas, come pure il suggestivo centro di Kastro, appollaiato su una rocca a strapiombo sul mare, conferiscono ancora all’isola – puntellata da centinaia di chiesette e monasteri – una dimensione rilassante, quasi atemporale: non a caso è stata patria o rifugio di numerosi poeti greci moderni.

A dire il vero però il tempo, impersonato dalla Storia con la S maiuscola, non ha certo risparmiato a Sifnos vicende variegate, momenti di prosperità e crisi profonde, fasi di libertà e altre di sottomissione. Infatti ci lascia traccia di insediamenti micenei (che tratterò più avanti), quindi di una prospera esistenza in età greca arcaica, quando i Sifnii si arricchirono con il commercio e con lo sfruttamento dei filoni metalliferi (oro e argento) dell’isola, che però già verso la fine del VI sec. a.C. andarono esaurendosi: quel poco che restava lo depredò in quegli anni il tiranno Policrate di Samo. Finito quel periodo aureo (in tutti i sensi!), testimoniato dal prezioso donario offerto all’oracolo di Delfi (Il “tesoro dei Sifnii”, di cui parlerò dopo) si aprì per Sifnos una storia – per così dire – “normale” e simile a quella di altre isole vicine: l’alleanza coatta con Atene, l’ellenismo, la dominazione romana, l’egemonia bizantina e poi la plurisecolare alternanza tra Veneziani, Turchi e pirati nel controllo dell’isola, che si unì alla Grecia quando questa si emancipò dagli Ottomani con la Guerra d’Indipendenza (1821-1832).

Ma è di due cose che – come anticipavo – vorrei qui trattare più diffusamente, poiché esemplari della storia più antica di Sifnos, e perché mi pare incarnino bene quella “aristocraticità” di cui parlavo: in primo luogo della notevole acropoli micenea di Agios Andreas, frutto di scavi recenti davvero molto interessanti, e in secondo luogo del celebre “tesoro dei Sifnii”, il cui fregio è conservato nel Museo di Delfi.

La rocca micenea di Sifnos

Cominciamo dunque dalla rocca micenea, che sembra fatta apposta per mostrare ai visitatori (scusate il gioco di parole…) come erano fatte le rocche micenee. Infatti sulla cima della collina di Agios Andreas – nel cuore dell’isola, dove sorge l’omonimo monastero settecentesco – è venuta alla luce una monumentale cittadella abitata a partire dal XIII sec. a.C. e cinta da mura ciclopiche, dalle cui torri si dominava (e si domina) tutta Sifnos, e si poteva avere anche il completo controllo delle isole vicine e del mare che la circondava (e che la circonda tutt’ora). Mi è venuto così in mente, durante la visita, l’inizio dell’Agamennone di Eschilo, quando la sentinella di vedetta vede dalla rocca di Argo le luci sul mare che fanno presagire il ritorno di Agamennone da Troia: era da una posizione simile che egli sorvegliava, e ciò dimostra come la cittadella di Agios Andreas – vero unicum nell’area egea insulare – regga il confronto (si parva licet…) con i più noti centri dell’Argolide. In realtà ho anche sperato che un ipotetico e “aristocraticissimo” wanax di Sifnos, reduce da una guerra con i suoi “aristocraticissimi” compagni, possa avere trovato qui una moglie meno violenta di Clitemnestra, magari ingentilita dal bel panorama (blu del mare, rosso della terra, verde degli ulivi…) che da quassù di gode.

All’interno della mura troviamo cisterne, magazzini, resti di edifici sacri e sepolture, con un complesso impianto urbano che dall’epoca micenea giunge fino a quella del cosiddetto “medio evo ellenico” e all’età greca arcaica. Ma di ciò si può trovare spiegazione esauriente nei pannelli esplicativi all’esterno e soprattutto all’interno del piccolo Museo, dove si ammirano anche reperti trovati in situ. Insomma, davvero una sorpresa questi scavi; e non mi stupisco che nel 2012 l’associazione Europa Nostra ( http://www.europanostra.org/news/277/ ) li abbia premiati come esempio di restauro e di valorizzazione di Beni Culturali al servizio dei cittadini, pure in un difficile periodo di crisi economica.

Il tesoro dei Sifnii a Delfi

Di certo la crisi non aveva ancora colpito i Sifnii quando – intorno al 525 a.C. – eressero a Delfi quello che è forse il più bello dei thesaurói, cioè i tempietti votivi donati al santuario oracolare di Apollo dalle varie póleis. Si trattava di un tempietto in stile ionico, fatto di prezioso marmo pario, con due splendide cariatidi sul lato frontale e due frontoni riccamente decorati (invero assai poco conservati); ma, soprattutto, con un fregio di mirabile fattura, in origine colorato in azzurro e rosso, forse opera di due diversi artisti. Il primo scultore sarebbe l’autore del giudizio di Paride sul lato ovest e di una scena di rapimento su quello sud, mentre il secondo – più sensibile al movimento, maggiore conoscitore della variegata iconografia della pitture vascolari – avrebbe scolpito su quello est un concilio degli dèi e su quello nord una gigantomachia. È probabilmente a lui che dobbiamo attribuire anche ciò che resta del frontone est, con la scena della controversia tra Apollo ed Eracle sul tripode delfico.

La fama del “tesoro” era grande già in antico, come afferma lo storico Erodoto; ed hanno ragione gli studiosi di oggi quando affermano che in questo monumento – in bilico tra arcaismo e successiva classicità – architettura, decorazione, scultura, pittura perdono la loro diversità per diventare una mirabile sintesi. E basta guardare le morbide forme delle dee a concilio (fregio est), o i possenti corpi degli eroi in lotta coi Giganti (lato sud) per comprendere tutto ciò, e gustarne l’”aristocratica” bellezza. Davanti ad esso sussultò perfino il grande (e ipercritico, super-selettivo…) Cesare Brandi, quando nel suo Viaggio nella Grecia antica (1954), il cui ebook mi porto sempre appresso in territorio ellenico, scriveva: Il fregio del Tesoro di Sifnos, ionico, velenosamente asiatico, conservato perfino in qualche colore, è come un film prodigioso, depilato e puntuale come un ordine del giorno. Una scultura liscia e dura pari a un guscio d’ovo. Che dell’ovo ha la insondabile finezza nella forma, e il risparmio, la chiusura ermetica. Con certo accorgimenti che passeranno pari pari al fregio del Partenone. Questo rilievo, infatti, che in realtà è il più schiacciato, più schiacciato di una medaglia, è portato avanti, “promosso” dal fondo come la corolla dal calice: ha, cioè, uno spessore di taglio che non corrisponde certo all’aggetto plastico, minimo questo. Ed è qui che anticipa lo schiacciamento in superficie del fregio del Partenone. Perché i particolari meno aggettanti sono invece quelli più vicini: e i più vicini ancora, verranno addirittura resi in pittura. Se ne vede bene l’impronta in negativo, rimasta sul marmo (cit. dall’edizione Bompiani, Milano 2011, pp. 42-43).

Certamente tra le nude pietre micenee e il candido marmo scolpito del “tesoro”, ci sono molti secoli (e oggi anche molti kilometri) di lontananza, ma – come anticipavo – mi pareva che questi incarnassero al meglio a livello simbolico lo spirito “aristocratico” dell’isola. Per chi però da Sifnos non potesse spingersi fino a Delfi o non volesse limitare il proprio interesse solo aull’epoca antica, suggerisco di visitare i numerosi edifici religiosi di Sifnos, e di non perdersi per nulla al mondo (almeno) la spettacolare Chiesa dei Sette martiri (sotto Kastro) e il veneratissimo Monastero della Panaghía Chrysopighí (sec. XVII), che sembrano – con la loro incredibile posizione – suggellare quell’unione di mare e di terra che ogni isola rappresenta. Spiritualità, dunque oltre che “aristocraticità”.
Mauro e Gisella
Monza

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